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L’esordio del Napoli in Champions League è perfettamente sovrapponibile a quello degli azzurri in Serie A. Come nelle ultime due partite di campionato, infatti, pure stasera appare evidente quanto il progetto di Garcia sia ancora in fase di rodaggio.

La sensazione di pericolo costante veicolata nell’intero secondo tempo, al cospetto di un avversario abbastanza ordinario, abile però nel creare almeno tre nitide occasioni per pareggiare, immediatamente dopo lo sciagurato autogol di Niakatè, hanno riacceso i dubbi che finora caratterizzano l’esperienza all’ombra del Vesuvio del tecnico francese.

I Campioni d’Italia hanno smarrito la via del dominio territoriale: per pigrizia o indolenza, la ripresa li ha visti rintanarsi in una difesa posizionale che non fa altro che portare il pericolo dentro casa, concedendo al Braga di riversare tanti uomini stabilmente nella trequarti partenopea, e sfiorare il clamoroso 2-2.

Debolezze congenite

Palese il tentativo portato avanti dal nuovo allenatore del Napoli: garantire una diversa identità tattica alla squadra, che nelle difficoltà, non deve più aggrapparsi al solito punto d’appoggio, ovvero, l’imprevedibilità generata da un possesso intenso e ritmato.

La visione proattiva e propositiva della precedente gestione, quindi gioco assai ipercinetico, vissuto sulla qualità del giropalla, sostituito con un approccio meramente reattivo.

Insomma, abbassarsi notevolmente a protezione dell’area di rigore, senza associare a questo atteggiamento la riaggressione, che potrebbe alleggerire la pressione altrui, assuefacendosi a una situazione di continua sofferenza, in cui l’avversario di turno approfitta di seconde e terze palle, per tenere in apprensione una retroguardia non certo impeccabile.

Così facendo, il messaggio che arriva agli uomini in campo, nonché a tifosi e addetti ai lavori, è quello di una squadra rinunciataria, piena d’ansia. Improbabile che sia la versione definitiva del Napoli, al momento, tuttavia, sembra l’unica possibile.

Forse Garcia immagina un sistema dove si esalti il collettivo – specialmente sottopalla -, affinchè le individualità si possano poi esprimere compiutamente, rinunciando a parte del proprio ego pedatorio. L’impressione che nei giocatori ci sia poca disponibilità nel cambiare filosofia non è campata in aria. Evidenti i segni di rigetto, che finiscono per prosciugare emotivamente un gruppo che sta perdendo molte delle sue certezze.

Il simbolo di questa debolezza strutturale è Juan Jesus. Non ce ne voglia, il brasiliano, diventato improvvisamente imprescindibile, nel maldestro tentativo di mettere una toppa alla voragine lasciata al centro della linea dalla partenza di Kim. Pensare di affidare le chiavi della fase difensiva a una buona riserva e poco altro rimane una scelta societaria azzardata, figlia di un mercato poco funzionale rispetto alle esigenze di un nuovo “manico”.    

Tre punti fondamentali

Un pericolosissimo segnale d’allarme, considerando il contesto. La Coppa dalle Grandi Orecchie è una competizione esclusiva ed elitaria, in grado di rimarcare senza tante scuse la dimensione dei partecipanti.

Al netto dei soliti noti, Top Club dalla portata mitologica, destinati a bruciare le tappe del loro percorso, spingendosi idealmente alla soglia alle Final Eight – le otto migliori squadre continentali -, alcuni sono meteore destinate ad una manciata di partite. Lontanissima la possibilità di scavallare la fase a gironi. Altri, invece, inseguono l’accesso alle gare a eliminazione diretta come un’appetibile opportunità per certificare lo status di legittimi contender agli occhi dell’aristocrazia europea.

Ecco, in Portogallo gli azzurri hanno trovato tre punti importantissimi. Ma anche dimostrato di essere parente alla lontana della squadra glamour, capace di posizionarsi con personalità sulla mappa del grande calcio appena un anno fa.

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