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Il lavoro doveva essere l’architrave portante della Costituzione Italiana, tant’è vero che rientra tra i Principi Fondamentali della Repubblica. Nell’idea dei Padri Fondatori l’art.1 doveva indicare immediatamente i tratti distintivi dell’Italia, un Paese basato sul contributo di tutti. Sostanzialmente, nessuno doveva mai più vantare titoli di merito, poggiati su privilegi di natura ancestrale o dinastica. Uno scenario in cui il lavoro diventava quindi il presupposto per favorire il progresso della società, oltre al benessere di ciascun cittadino.

Peccato che ormai tale principio appaia sempre più effimero e bugiardo, sacrificato sull’altare dei diritti negati. Gli ultimi anni, infatti, hanno coinciso con la costante mercificazione del lavoro. Una pervasiva consuetudine culturale, prim’ancora che lavorativa, capace di cancellare ogni forma di tutela, anche la più elementare. Un segno di arretratezza, che non solo continua a provocare tragedie con cadenza disarmante. Ma favorisce pure la diffusione del precariato.

Evidente la percezione che specialmente il rapporto tra mercato del lavoro e Pubblica Amministrazione stia andando in frantumi. Inclinatosi clamorosamente verso una china irreversibile, cristallizzata dall’ampia liberalizzazione concessa al subappalto. Funzionale, sulla carta, a incentivare il coinvolgimento delle piccole e medie imprese nel sistema degli appalti pubblici.

Una pratica sia ben inteso assolutamente legale, per cui l’appaltatore affida a terzi l’esecuzione di parte delle prestazioni oggetto del contratto di appalto. Peccato che l’organizzazione dei mezzi, nonché l’assunzione dei rischi, finiscano tutti a carico del subappaltatore. De facto, una forma di lavoro alquanto odiosa, attraverso la quale alcuni lavorano al posto di altri. Ovviamente a condizioni peggiori. Mentre “gli altri”, nel frattempo fanno soldi a palate senza fare alcunché.

La tragedia che ha colpito la centrale idroelettrica di Bargi rappresenta solamente l’ultima in ordine di tempo che coinvolge una sequela inarrestabile di lavoratori in regime di subappalto. Oggi la Politica fa a gara nel dimostrare all’opinione pubblica tutto il suo cordoglio. Peccato che la deregulation, ovvero il processo per cui i Governi cessano di controllare il mercato del lavoro, liberandolo da qualsiasi vincolo che non sia il mercato stesso, l’abbia legittimata nel lontano 2016 Matteo Renzi. Innegabile che il suo “Jobs Act” abbia reso talmente flessibili i diritti dei lavoratori, da rimandarli indietro nel tempo.

Manco fossimo nelle miniere di cobalto nel Congo, troppo simili a lager, per come viene cinicamente sfruttata la manodopera, per non indignarsi. Sulla medesima lunghezza d’onda s’è sintonizzata Giorgia Meloni. Del resto, affossare il salario minimo rientra nel disegno trasversale dell’intera classe dirigente, senza distinzione di colore o appartenenza ideologica, organica a massimizzare i profitti sulla pelle dei lavoratori.

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