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L’università, in Italia, ha lo scopo di preparare chi la frequenta al mondo del lavoro. Allo studente è richiesta durante tutto il percorso una buona dose di puntualità, autonomia ed efficienza. C’è poi un’altra grande verità: studiare con profitto porta con ogni probabilità all’esclusione dell’attività sportiva agonistica e viceversa.
E se un giovane non fosse disposto a rinunciare né all’uno né all’altra? Ovviamente, le squadre universitarie italiane esistono, ma non rappresentano uno sbocco importante per il professionismo.
In America, invece, le cose sono agli antipodi.
Nei grandi sport, basket e football su tutti, il college è una tappa fondamentale per attirare su di sé gli occhi delle franchigie professionistiche. I colossi dello sport a stelle e strisce sono, infatti, annualmente chiamati a scegliere, come se fossero ad un ristorante, quali giovani provenienti da leghe amatoriali, universitarie o estere entreranno a far parte della loro rosa. Questo si chiama draft e avviene tutto in una a livello mediatico seguitissima notte.
Tutti i grandi campioni, a parte qualche eccezione, hanno messo in mostra le loro qualità al college.
Tra questi, c’è colui il quale molti ritengono essere il più forte cestista di tutti i tempi, l’icona sportiva e commerciale più conosciuta al mondo e uno dei tre più grandi sportivi americani del novecento, insieme a Muhammad Ali e Babe Ruth.
Stiamo parlando di Michael Jeffrey Jordan e oggi torneremo indietro alla sua prima grande notte cestistica, il suo primo campionato universitario e la sua rapida ascesa all’olimpo della palla a spicchi.

Michael Jeffrey Jordan, MJ per gli amici, nasce a Brooklyn, New York, il 17 febbraio 1963 da mamma Deloris, impiegata di banca, e da papà James Jordan Sr., meccanico alla General Electric. La figura del padre rappresenterà sempre un porto sicuro per Michael, nonché una fonte d’ispirazione: James, che avrebbe voluto vedere il figlioletto dilettarsi con mazza e guantone, è un uomo dalla spiccata saggezza spirituale e insegnerà al figlio l’arte del saper aspettare il proprio momento anche nei momenti più bui. Non è certo un caso che il primo ritiro dalle scene di Air Jordan avvenga subito dopo lo scioccante assassinio del genitore, avvenuto per mano di due malviventi il 22 agosto 1993. 

L’altra figura cruciale nella vita di MJ è il fratello maggiore Larry, anch’egli cestista e avversario di mille partite 1vs1 a basket nel campetto sotto casa Jordan, nonché stimolo continuo per Michael al perfezionarsi sotto i mille aspetti della vita. Da piccolo, infatti, MJ soffre molto la presenza in casa di Larry, a tal punto da pensare che i genitori nutrano minor stima nei suoi confronti. Questo si rifletterà anche sulla scelta del numero di maglia: Michael opterà, infatti, per il 23, la metà esatta di 45, il numero preferito di Larry.

Poco dopo la nascita di Michael, i Jordan si trasferiscono a Wilmington, North Carolina, uno degli Stati americani più problematici sotto la voce razzismo. Uno stato in cui 100 anni prima un qualsiasi nero che si fosse azzardato a giocare con una palla sarebbe stato punito con 20 scudisciate. Il piccolo Jordan si trova faccia a faccia con uno dei più grandi mali d’America. 

Un giorno, mentre il piccolo MJ è a bordo dell’autobus scolastico intento a mangiare un ghiacciolo, una ragazza gli chiede di lasciarle il posto: al netto rifiuto di Michael, la ragazza insiste, fino a che Michael, spazientito, non le tira addosso il ghiacciolo. A quel punto, la ragazza gli sputa in faccia e gli dice: “Negro, alzati!”. A casa interviene la massima autorità spirituale in famiglia, James: “Figlio mio, ti ci devi abituare. Tu lasciali parlare, che quando avrai la tua occasione, potrai vendicarti in silenzio”. Semplicemente perfetto.

Michael frequenta la Laney High School di Wilmington e gioca per la squadra dell’istituto, ha una personalità estroversa e non eccelle particolarmente negli studi. Le cose vanno molto meglio sul rettangolo di gioco, dove veste la maglia delle giovanili del Laney High School Buccaneers. Un giorno, Jordan si dirige verso la palestra della scuola: alla bacheca sono attaccati due fogli e sopra ci sono scritti 30 nomi, quindici per foglio. Sono i nomi dei giocatori selezionati dalla squadra di basket della scuola, divisi in Varsity, la prima squadra, e Junior Varsity, la seconda squadra, riservata principalmente agli studenti del primo anno. Jordan, pur essendo al secondo anno, ha già una consapevolezza molto elevata dei suoi mezzi e va immediatamente a vedere l’elenco della Varsity: tra i quindici, però, non figura il suo nome.

A questo punto, Jordan tira fuori un moleskine e scrive un nome: quello dell’allenatore che lo ha tagliato, Clifton “Pop” Herring, il più giovane allenatore dello Stato della Carolina. Questo semplice gesto sarà ripetuto da Michael centinaia e centinaia di volte. Chiunque non abbia creduto in lui, gli abbia mancato di rispetto o lo abbia sfidato finisce indelebilmente tra le pagine di quella che è a tutti gli effetti un serbatoio di rabbia agonistica per His Airness. Le ragioni dell’esclusione decretata da “Pop” sono molto semplici: l’allora quindicenne Michael non ha ancora completato il suo sviluppo fisico ed è alto solo 178 cm; l’ultimo nome nell’elenco dei convocati per la Varsity, ovvero Leroy Smith, è sì coetaneo di Michael, ma guarda già tutti dall’alto in basso con i suoi due metri e cinque d’altezza. 

Jordan gioca così tra le fila della Junior, per passare in seguito alla Varsity di coach Pop, che diventa così il suo primo allenatore. Se MJ è stato quello che oggi tutti conosciamo, parte dei meriti vanno, ovviamente, anche a questo giovane coach, che lo accompagnerà anche nella delicata scelta del college da frequentare. Piccolo salto temporale: nel 1994, Michael inviterà Pop davanti a 22000 spettatori dello United Center di Chicago. Qui la riconoscenza verrà rimpiazzata dalla vendetta del moleskine: durante un discorso alla folla in adorazione, MJ affermerà che, sì, Pop è proprio l’uomo che ha osato scartarlo. Il risultato? Una pioggia di fischi e ululati. Questo è Michael: prendere o lasciare.

Nel 1981, Michael è nel pieno della fase di reclutamento, la scelta del college: una scelta già di per sé complicata, ma che nel caso di Michael si fa ancora più dura. Jordan è, infatti, il primo ragazzo dello Stato della Carolina a vincere una borsa di studio per meriti sportivi ed è letteralmente ambito da tutte le università americane. In cima alla lista dei desideri ci sarebbe l’UCLA, University of California, tanto che scriverà una lettera a coach Larry Brown, che in NBA farà grandi cose, senza però ottenere una risposta. Jordan vira allora su Virginia. Qui gli studenti hanno le scarpe più belle, le Nike… no le Adidas! Ironico come in gioventù l’uomo che farà le fortune dello swoosh, iconiche le sue Jordan 1 rilasciate nel 1984 al suo debutto in NBA, adorasse le scarpe tedesche.

Il North Carolina è off limits nei pensieri di Michael, la mamma spinge, invece, per Duke, una delle università più ricche d’America, luogo nel quale il ragazzo della Carolina non farebbe proprio brutta figura. Il destino sa però essere beffardo e Jordan alla fine si iscrive all’Università del North Carolina. Decisivo nell’economia della scelta, la presenza di una figura leggendaria del college basketball, Dean Smith, vincitore della medaglia d’oro olimpica a Montreal ‘76. Molto rigido sotto alcuni aspetti (esclude ad esempio Jordan nella foto di rito di Sports Illustrated perché freshman, matricola), propone un gioco estremamente elegante, con seguaci in tutta Europa. In rosa MJ trova due giocatori dal sicuro avvenire in NBA: James Worthy, che avrà un ruolo di primo piano nei Lakers dello Showtime di Magic Johnson, e Sam Perkins,  protagonista di una discreta carriera nella lega. I tre creano fin da subito una buona alchimia. Durante il torneo collegiale, Carolina perde solo due partite, contro Wake Forest e Virginia, ma raggiunge comunque le fasi finali del campionato della costa Atlantica, dove trionfano battendo nell’ultimo atto proprio Virginia.

Si vola così al torneo NCAA, torneo nel quale si sfidano le migliori squadre collegiali degli USA. Al primo turno, Carolina bate James Madison per due soli punti, 52 a 50. Successivamente, Michael Jordan e compagni sconfiggono in serie Alabama, Villanova e Houston. Si arriva così alla finale.

Il 29 marzo 1982, davanti ai 60.000 spettatori del Superdome di New Orleans, Louisiana, e ai 17 milioni sintonizzati sulla CBS, va in scena la finale NCAA, che vede di fronte i North Carolina TAR Heels di Jordan, Worthy, Perkins e Dean Smith, e i Georgetown Hoyas, un’altra eccellenza assoluta del college basketball americano, in cui spicca un certo Patrick Ewing, grande amico di MJ e avversario dello stesso in durissime serie di playoff tra i Chicago Bulls e I New York Knicks a inizio anni ‘90.

La partita è tesa e combattuta e si arriva a pochi secondi dalla fine, quando Dean Smith chiama un timeout con i suoi sotto di uno. Non sapremo mai cosa si sono detti di preciso, ma questo è il probabile riassunto: Smith chiama il suo playmaker e gli ordina di chiamare uno schema apparentemente per Worthy, l’uomo più pericoloso dei suoi, che sta giocando un torneo da favola e che, dopo la finale, verrà premiato con il premio di Most Outstanding Player, l’MVP del torneo. Lo schema è, però, apparentemente per lui: il vero obiettivo è liberare Michael per farlo andare al tiro. Jordan viene, così, caricato di una responsabilità enorme, tanto che Smith, uscendo dal timeout, gli sussurra Knock it in, Michael!”, “Buttala dentro!”. In campo, lo schema riesce a meraviglia e Jordan segna il canestro del controsorpasso, complice una fase difensiva di Georgetown non proprio reattiva. Gli Hoyas avrebbero anche l’occasione del controsorpasso, ma la sprecano malamente regalando palla a North Carolina, che vince così il suo secondo titolo in assoluto.

Gli altri due anni di università sono praticamente un gioco da ragazzi.
Jordan, pur non mettendo in bacheca nulla, mette in mostra talmente tanto il suo talento smisurato, da indurre Dean Smith a dargli la possibilità di fare roaming difensivo. No, le connessioni del cellulare non c’entrano nulla. Jordan ottiene dal coach la possibilità di non seguire i movimenti degli avversari che deve marcare, avendo così la possibilità di difendere per conto suo, perché MJ ha un’intelligenza cestistica tale, da riuscire a leggere molto prima degli altri dove andrà il pallone e cosa faranno gli altri giocatori.

Nel 1984, Michael si dichiara eleggibile per il draft NBA.
Gli esperti lo pronosticano tra le primissime scelte, è troppo forte per essere ignorato.
Alla prima scelta Houston vira, legittimamente, su Hakeem Olajuwon, fortissimo centro nigeriano che porterà i Rockets a vincere due titoli NBA consecutivamente, nel ‘94 e nel ‘95. Al secondo pick, Portland sceglie Sam Bowie, centro di Kentucky, compiendo forse uno degli errori manageriali più grandi della storia dello sport.
La scelta di Portland è dettata dalla presenza in rosa di un giocatore come Clyde Drexler, per tutti un futuro campione della franchigia, e come MJ di ruolo guardia tiratrice. La maledizione del moleskine non si fa attendere. Jordan annota così Portland, già pregustando la propria vendetta sportiva.
Li annichilirà nelle finali 1992, in pieno stile MJ.
Da lì in poi, i Blazers non andranno mai più in una finale NBA, mentre Sam Bowie si ritirerà nel 1995 deludendo le aspettative, anche a causa di numerosi problemi fisici.
Chicago, invece, non ci cade nel tranello e al terzo pick sceglie Michael Jordan, che potrà vantare a fine carriera un palmares che fa rabbrividire alla sola lettura, ma questa è un’altra storia.