Ferdinando De Napoli, estasi e dolori
Ogni grande squadra degna di tal nome ha il proprio astro attorno al quale gli altri pianeti orbitano con diligente devozione. Il Napoli degli anni ’80 trovava la sua luce assoluta in Diego Armando Maradona, genio e sregolatezza, artefice di sogni e incubi per chiunque osasse sfidarlo. Ma il calcio, si sa, non è mai solo questione di stelle: servono i portatori d’acqua, i soldati silenziosi che costruiscono il fortino e ne sorreggono le mura. Tra questi, uno dei più valorosi fu Fernando De Napoli, cuore e polmoni della mediana azzurra. Nando non era un artista, ma un operaio di lusso, uno di quelli che corrono per sé e per gli altri, con il fiato lungo e la coscienza tattica di chi sa che le grandi imprese si scrivono anche nell’ombra. E alla fine, tra scudetti, coppe e trionfi, ha messo in bacheca quasi tutto ciò che un calciatore può sognare.
La sua carriera è iniziata prestissimo. Il ragazzo che giocava per le strade di Chiusano di San Domenico, minuscolo paese della Campania, spaccando le finestre delle case e il bar del padre, non ci ha messo molto ad arrivare nella squadra del cuore. Nando è stato scoperto nelle giovanili del Mirgia di Mercogliano e convinto dal presidente dell’Avellino a far parte della squadra Primavera. Ha trascorso alcuni mesi con i Biancoverdi prima di essere prestato al Rimini, dove ha avuto il suo primo assaggio di calcio professionistico.
Correva l’anno in cui il Rimini navigava nelle acque della Serie C, un palcoscenico lontano dai riflettori, ma pronto a illuminarsi sotto la guida di un uomo destinato a cambiare per sempre il gioco: Arrigo Sacchi. Aveva 36 anni, ma dentro di sé portava idee che sembravano provenire dal futuro. In quel contesto approdò un giovane centrocampista che aveva esattamente la metà degli anni del suo allenatore: l’età è un numero, il talento invece è una sentenza. E Fernando De Napoli, il talento, lo fece parlare subito, conquistandosi con la personalità e la qualità il cuore del centrocampo biancorosso.
«Prima di passare al Rimini, andai a giocare con la Mirgia di Mercogliano. Poi a 16 anni mi prese la primavera dell’Avellino. Il presidente Sibilia venne a parlare con mio padre e lo convinse a farmi giocare con la mia squadra del cuore, l’Avellino. La società mi mandò successivamente in prestito al Rimini di Sacchi. I suoi schemi li ricordo ancora, rimarrà per sempre il mio più grande insegnante. Sacchi per me non era un semplice allenatore, era un maestro molto tosto. Ricordo che spesso andava ad Amsterdam per seguire gli allenamenti dell’Ajax. Cercava di trasmettere la sua concezione di calcio a tutti noi. In ogni modo. Era molto duro. Spesso mi sgridava perché pretendeva che leggessi un libro. Ma io preferivo Diabolik».
Le sue 31 presenze e i suoi due gol sono stati fondamentali per le prestazioni del Rimini, quinto nel suo girone di Serie C, ma anche per il suo ritorno all’Avellino. Questa volta per giocare in Serie A e diventare una stella nel periodo d’oro del club.

Tornato all’ovile, De Napoli fu subito battezzato “Rambo” dagli adepti del culto calcistico locale. Non solo per la criniera selvaggia, ma per l’ardore bellicoso con cui presidiava la mediana, trasformando ogni zolla in teatro di battaglia. Il fango era per lui un blasone, la fatica un sacramento: raramente Nando abbandonava il campo senza i segni del combattimento, emblema d’una dedizione incrollabile. Fu cuore e polmoni della truppa biancoverde, pilastro di un’epopea salvezza che rese onore ai Lupi nelle tre stagioni vissute al Partenio.
Irpino verace, tifoso viscerale della squadra che ne portava l’orgoglio sui campi d’Italia, Nando incarnava lo spirito indomito di una terra segnata dal flagello tellurico degli anni Ottanta, ma mai doma, mai piegata.
«I miei 3 anni ad Avellino sono stati indimenticabili. Ogni partita era per me un esordio. Scesi per la prima volta in campo in Serie A a Roma. Perdemmo 3-2, fu una grande partita. Marcavo Toninho Cerezo. Perdemmo ma fu una vera battaglia. Fui molto fortunato ad essere allenato da mister Bianchi. Lui puntava molto sui giovani a differenza del suo predecessore, Veneranda, che preferiva mettere in campo l’esperienza e non mi prendeva mai in considerazione. Bianchi mi fece subito esordire in serie A. Fu un’emozione indescrivibile. È inspiegabile cosa prova un avellinese nel momento in cui indossa la maglia della propria città rappresentandola in Serie A».
Ha debuttato presto con l’under 21 e Bearzot lo ha fatto esordire in Nazionale maggiore in un’amichevole contro la Cina. Con Salvatore Bagni ha formato il centrocampo dell’Italia. Fino ad oggi, De Napoli è l’unico giocatore dell’Avellino ad aver indossato la maglia Azzurra.
Dall’Azzurro della nazionale a quello del Napoli il passo è stato breve. Dopo aver rifiutato Juventus, Inter e Sampdoria, De Napoli ha accettato di trasferirsi nella città della Dea Partenope per non allontanarsi da casa. Ha immediatamente legato con Diego Armando Maradona.

Ha detto di lui: «Diego è una persona buona, fantastica, oltre che calciatore che non sto io a raccontarlo. Mi sento spesso con il suo agente. Diego Maradona è una persona da conoscere. Sono rimasto in rapporti buoni con tanti giocatori: Ferrara, Bruscolotti, Romano».
A Napoli giunse come l’elemento perfetto per dare sostanza e vigore alla mediana. Ritrovò Bagni, e insieme si fecero scudo attorno al genio di Maradona, conquistando subito il titolo tricolore. Seguì una Coppa Italia, poi un altro scudetto e infine la gloria europea con la Coppa UEFA: trofei che suggellarono la sua militanza azzurra, sempre generosa e mai doma.
Al Milan, il destino gli fu avverso. Giunse in una squadra stellare, ma il ginocchio tradì la sua tempra d’acciaio. La cartilagine gli negò il campo, e nella riabilitazione trovò compagno un altro campione dimezzato dal fato: Marco Van Basten. Il fato, impietoso, li volle entrambi fuori dai giochi prima del tempo. Di quella Coppa dei Campioni sollevata dai compagni, De Napoli sentì solo il riflesso, mai il possesso.
Eppure, fu sempre atleta esemplare, rigoroso nel vitto e nei costumi, soldato fedele del pallone. Il ginocchio, ahilui, scrisse la trama del suo tramonto. Rimpianto ne ebbe, ché il Mondiale del ’90 rimase chimera: Italia intera sognò, ma il sogno si spense sul più bello, lasciando nel cuore di De Napoli – come in quello di tanti – un vuoto incolmabile.

La Redazione di PerSempreNews